Occupazione di un fondo, rimozione del manufatto illegittimamente realizzato e risarcimento danni
Consiglio di Stato sez. IV sentenza n. 897 del 27.02.2017
L’attore del giudizio di primo grado chiedeva al giudice amministrativo l’accertamento dell’illegittimità della costruzione realizzata sul terreno di proprietà dal Consorzio per lo sviluppo industriale del Comune di Vibo Valentia nel 2011.
Chiedeva, altresì, la riduzione in pristino ed il risarcimento dei danni, facendo presente come il terreno di cui si discuteva fosse stato oggetto di un decreto prefettizio di occupazione temporanea nell’ambito di una procedura espropriativa.
Il ricorrente provava la titolarità del bene, depositando l’atto di provenienza dell’immobile, e l’occupazione del suolo privato – ancora in atto- ed allegava una consulenza che il giudice condivideva, con la quale si sosteneva come non fosse eccessivamente onerosa o totalmente impossibile la riduzione in pristino così come chiesta nella sua domanda.
Il Consorzio contestava tardivamente la titolarità del bene, generando così una preclusione e, di conseguenza, l’ammissione in giudizio del fatto non contestato.
IL TAR CALABRIA argomentava:
- Veniva dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della controversia poiché non vi è stata alcuna contestazione della controparte.
- Condannava il Consorzio alla restituzione del fondo, alla rimozione delle opere illegittimamente realizzate e al risarcimento del danno quantificato in euro 000,00.
- Il giudice riteneva, fatto riconosciuto e non contestato, che il fondo fosse di proprietà del ricorrente e che non ricorrevano gli elementi per affermare l’espropriazione eccezionale, ex art. 42-bis D.P.R. 327/2001 (T.U. in materia di espropriazione) in quanto, dopo il decreto prefettizio scaduto, non era mai intervenuto alcun titolo giustificativo dell’espropriazione di pubblica utilità. Pertanto, il ricorrente, essendo proprietario del bene, aveva diritto al risarcimento del danno a seguito della perdita di disponibilità del bene.
- In ordine alla CTU di parte, il giudice provvedeva a nominare un perito, il quale esprimeva valutazioni condivisibili al consulente, le quali erano esenti da vizi logici e tenevano conto delle osservazioni delle parti nella determinazione del valore venale dell’immobile e del valore locativo.
Il Consorzio proponeva appello ma non impugnava il capo relativo alla giurisdizione del giudice amministrativo, deduceva:
- il difetto di titolarità del ricorrente sul bene oggetto della causa e contestava l’idoneità del documento prodotto.
- la violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il giudice disposto la restituzione del bene senza che vi fosse esplicita domanda. Ricordiamo che la disposizione sancisce il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, vale a dire che “il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti”.
- il riconoscimento del risarcimento del danno e la sua quantificazione. Il Consorzio contestava la circostanza secondo la quale il riconoscimento era stato riconosciuto considerando il danno in re ipsa, ricollegandolo alla perdita di disponibilità del bene.
Il Consiglio di Stato così motivava:
- Sul difetto di titolarità del ricorrente “controparte contesta l’idoneità del documento prodotto; si rileva che, quale elemento costitutivo della domanda, grava sull’attore la prova, restando non influente la preclusione processuale rilevata dal giudice per avere il consorzio contestato la titolarità solo con la memoria nel 2014”…se è vero che la prova (nel caso di elemento costitutivo della domanda) grava sull’attore, il quale è titolare del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio, deducendo fatti idonei a fondare il diritto azionato (legitimatio ad causam), è altrettanto vero che nel giudizio di risarcimento dei danni derivati ad un bene immobile da un illecito comportamento del convenuto, atteso che oggetto della pretesa azionata è, non già il diretto e rigoroso accertamento della proprietà del fondo, bensì l’individuazione del titolare del bene avente diritto al risarcimento, non è richiesta la prova rigorosa della proprietà (cd. probatio diabolica), potendo il convincimento del giudice in ordine alla legittimazione alla pretesa risarcitoria formarsi sulla base di qualsiasi elemento documentale e presuntivo sufficiente ad escludere un’erronea destinazione del pagamento dovuto” (v. Cass. n. 18841 del 2016).
Il Consiglio di Stato, pertanto, riteneva idoneo l’atto di provenienza del bene, in mancanza di contestazioni specifiche di controparte.
- sulla restituzione del bene senza che vi fosse esplicita domanda. In virtù della disposizione che sancisce il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, il motivo appariva manifestamente infondato poiché l’esplicita richiesta di riduzione in pristino non potrebbe mai contenere una implicita rinuncia al diritto di proprietà “nell’ambito del potere di qualificazione della domanda, spettante al giudice, basta solo aggiungere che l’esplicita richiesta di riduzione in pristino, effettuata in via principale ed esclusiva, mai potrebbe logicamente contenere una implicita al diritto dominicale”.
- Sul riconoscimento del risarcimento del danno e la sua quantificazione.
Il Consorzio contestava la circostanza secondo la quale il riconoscimento era stato riconosciuto considerando il danno in re ipsa, ricollegandolo alla perdita di disponibilità del bene.
Invero, sostiene il Consiglio di Stato che la giurisprudenza di legittimità, in tema di danno da occupazione illegittima di un immobile, ha sempre ricollegato il danno in re ipsa alla perdita di disponibilità del bene e all’impossibilità di conseguire l’utilità dall’esercizio delle facoltà di godimento e disponibilità, insite nel diritto di proprietà. “L’esistenza di un danno costituisce, così oggetto di una presunzione iuris tantum superabile ove si accerti che il proprietario si sia intenzionalmente disinteressato dell’immobile (Cass. n. 1679 del 2016)
A fronte di tale presunzione, l’appellante deduceva la mancanza di deduzioni da parte dell’appellato in ordine all’utilizzo del fondo e, ai fini della riduzione del risarcimento, la mancata attivazione, per tempo, al fine di far cessare lo stato di illegittimità.
In realtà, l’appellato faceva valere l’acquisto al fine di edificare in quell’area, così come emergeva dall’atto di provenienza allegato in atti.
- In ordine al quantum del risarcimento, il Consiglio di Stato ha richiamando quanto fatto proprio dal TAR Calabria riteneva la consulenza tecnica priva di vizi, esauriente ed argomentata, procedeva alla quantificazione secondo equità, ai sensi dell’art. 1226 c.c., assumendo come punto di partenza il valore locativo annuale dell’immobile.
Per stimare tale valore, si consideravamo alcuni indici, quali il periodo complessivo di occupazione (oltre 18 anni), la possibilità di edificare, le dimensioni del manufatto e dell’area circostante e l’incidenza di queste sulla possibilità di disporre dell’intero bene occupato.
La sentenza del Consiglio di Stato fa applicazione, altresì, del principio espresso dall’art. 104 co. 2 c.p.a, ovvero del divieto di nuove prove in appello (fatte salve le eccezioni della indispensabilità e della non imputabilità della mancata tempestiva produzione), con riferimento al deposito delle osservazioni del nuovo consulente di parte, che dal Consorzio sono state depositate insieme all’atto di appello.
Proprio sul nuovo documento prodotto in appello, si fondava la critica che escludeva, sin dall’epoca della costruzione del manufatto, la reale vocazione edilizia dell’immobile.
Da ultimo l’appellato, proponeva appello incidentale, censurando il computo del giudice in ordine alla valutazione del valore locatizio, in particolare il periodo successivo al 2011.
Il giudice valutava equitativamente il risarcimento del danno, tenendo conto anche del periodo di “non edificabilità” e il valore era assunto fino all’attualità, senza alcun bisogno della rivalutazione: il danno veniva calcolato all’attualità al momento della decisione (v. sent. Cass. n. 4636 del 2016).
Con il secondo motivo lamentava il mancato riconoscimento degli interessi compensativi. Il giudice non riconosceva tali interessi sulla base dell’orientamento della giurisprudenza che ritiene che: “nei debiti di valore i cd. interessi compensativi costituiscono una mera modalità liquidatoria del danno causato dal ritardato pagamento dell’equivalente monetario attuale della somma dovuta all’epoca dell’evento lesivo.
Tale danno sussiste solo quando, dal confronto comparativo in unità di pezzi monetari tra la somma rivalutata riconosciuta al creditore al momento della liquidazione e quella di cui egli disporrebbe se (in ipotesi tempestivamente soddisfatto) avesse potuto utilizzare l’importo allora dovutogli secondo le forme ordinarie nella comune esperienza ovvero in impieghi più remunerativi, la seconda ipotetica somma sia maggiore della prima; solo in tal caso si può ravvisare un danno da ritardo, indennizzabile in vario modo, anche mediante il meccanismo degli interessi.
In ogni altro caso il danno va escluso. Il giudice del merito è tenuto a motivare il mancato riconoscimento degli interessi compensativi solo quando sia stato espressamente sollecitato mediante l’allegazione della insufficienza della rivalutazione ai fini del ristoro del danno da ritardo secondo il criterio sopra precisato” (v. Cass. n. 22347 del 2007; n. 15823 del 2005; n. 12452 del 2003). Nel caso di specie, al contrario, il creditore non allegava alcuna motivazione atta ed argomentare il fatto che se avesse avuto la somma valutata al momento della domanda avrebbe potuto utilizzarla nelle forme ordinarie o in impieghi più remunerativi.
In conclusione, sono stati rigettati l’appello principale e l’appello incidentale.